Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 123
novembre 1984


Rivista Anarchica Online

L'anarchia possibile
di David Koven

Riconsiderando le mie idee anarchiche alla luce dei numerosi cambiamenti che sono avvenuti nella società da quando per la prima volta ho preso coscienza del pensiero anarchico e la realtà di oggi, riconosco che ci sono aspetti dell'anarchia che rimangono saldi in me quanto allora, se non di più: l'analisi anarchica del ruolo dello Stato e l'accento su una mutua collaborazione come mezzo per ottenere una società più libera, per esempio. Inoltre, il pensiero e gli scritti di uomini come Kropotkin, Randolph Bourne, e uomini della mia epoca come Colin Ward, Paul Goodman, Bartelemy Delight, Wilhelm Reich e Gandhi, esercitano ancora un'enorme influenza sul mio pensiero.
Colin Ward continua a richiamare il nostro pensiero all'applicazione pratica delle nostre idee all'interno della struttura del nostro contesto sociale reale. Paul Goodman ha sempre insistito nel dire che l'anarchia non è un concetto utopico, ma deve essere integrata nella nostra vita come un processo dinamico. Wilhelm Reich ha insisitito sulla necessità di affermare l'importanza della nostra sessualità e sugli effetti negativi della repressione. Bartelemy Delight, anarchico olandese, non ha mai smesso di esortarci a trovare la via per una azione diretta nonviolenta per rafforzare la nostra visione anarchica. E naturalmente la meravigliosa inventiva di Gandhì di ispirare l'azione diretta nonviolenta che alla fine fu la vera forza che cacciò il governo inglese dall'India.
Tutte queste idee, per me, sono importanti oggi come quando le scoprii per la prima volta, se non di più. Questi concetti e queste influenze naturalmente coincidevano con la concezione della società come una struttura che si autogoverna: una società di individui che si aiutano, che si rispettano, che scelgono liberamente di collaborare per risolvere, pacificamente, i complessi problemi che abbiamo di fronte. In breve, il modello incredibilmente bello, semplice ed eminentemente pratico di una società che noi identifichiamo con quella anarchica.
A causa della crescita dello statalismo e della minaccia alla sopravvivenza del genere umano che questo rappresenta, è anche più urgente creare una consapevolezza delle nostre idee. Dobbiamo trovare il modo di convincere la maggioranza dei popoli del mondo a lavorare insieme a noi per costruire una società più giusta e vitale. Noi dobbiamo incoraggiare la resistenza all'incremento di statisti portatori di morte.
Io sono convinto che per fare questo, dobbiamo cominciare riesaminando e rivalutando alcune delle nostre premesse di base, specialmente nell'area della tattica. Un riesame che deve farci mettere in discussione il nostro passato storico e anche il ruolo che ricopre l'anarchia nella vita di ciascuno di noi. Non dobbiamo risparmiare né «i padri dell'anarchia», né noi stessi.

Riflettendo sul passato
Di tutti i miti che sopravvivono del nostro passato, la convinzione che le istituzioni esistenti si possono cambiare con una rivoluzione violenta è stata forse una delle più dannose e frenanti per il movimento. Questo concetto, radicato com'era nell'ottimismo e nel fervore rivoluzionario del 19° secolo; la convinzione che la rivoluzione era imminente; che le contraddizioni interne al capitalismo erano le immediate premesse al suo crollo; e forse la convinzione più illusoria di tutte, che le masse, dalle «ceneri della vecchia società» avrebbero edificato un futuro luminoso, brillante e libertario, ora sembra amaro e vuoto. Ahimé, il grido di battaglia del 19° secolo, «Alle barricate!», sembra aver condotto solo al consolidarsi di società totalitarie ancora più grandi.
Quand'ero giovane, penso che il concetto anarchico che trovavo più affascinante fosse l'idea, radicata nell'etica anarchica, che i «mezzi che usiamo devono essere sempre proporzionati ai fini che vogliamo raggiungere». Se accettiamo quest'idea come antitetica al motto marxista/capitalista «il fine giustifica i mezzi», dobbiamo riesaminare il concetto di rivoluzione violenta come tattica vitale per la realizzazione dell'anarchia.
Oggi, con la conoscenza della storia che abbiamo ora, e la nostra consapevolezza del fallimento di tutti i tentativi rivoluzionari che sono stati fatti, le rivoluzioni fallite sia a destra che a sinistra, dobbiamo concludere che in nessun caso la violenza ha portato ad una società libertaria. Dobbiamo smettere di pagare il prezzo del rovesciamento violento delle istituzioni esistenti e indirizzarci verso l'ideazione di una tattica nonviolenta di azione diretta che rifletterà più direttamente la nostra visione globale di come la società può essere organizzata.
Nel tentativo di capire perché l'anarchia non ha prosperato durante il 20° secolo, sono giunto a pensare che la tendenza delle speranze anarchiche ad accentrarsi attorno al concetto di «Rivoluzione», un concetto ereditato dal 19° secolo, ha finito col creare una spaccatura nella vita degli anarchici che ci hanno preceduto. A causa della loro preoccupazione per l'«Idea», sono stati incapaci di rivolgere la loro attenzione alla realtà più prossima e così, per la maggior parte, sono scivolati dentro strutture famigliari autoritarie e tendenze sessiste che erano quasi completamente in contraddizione con la visione dell'anarchia che avevano. Non sorprende quindi constatare che tutto questo ha portato ad una quasi completa assenza, nel movimento anarchico, dei figli degli anarchici. Naturalmente ci sono alcune eccezioni, ma non fanno altro che evidenziare ulteriormente l'assenza di tutti gli altri figli di famiglie anarchiche.
Purtroppo i minatori, i marinai e i tessili che ho incontrato quando per la prima volta sono entrato in contatto con il movimento anarchico, non pensavano che una vita di azione e di lotta anarchica, una vita come la loro, sarebbe andata bene per i loro figli. Come la maggior parte degli immigrati, volevano che i loro figli «avessero successo», diventassero medici, avvocati, insegnanti, professionisti e artisti: cosa che per la maggior parte fecero. Nel migliore dei casi questi figli divennero «liberals» e scomparvero nel sistema delle istituzioni esistenti. Inoltre, con qualche sporadica eccezione, la maggior parte degli anarchici che conobbi a quel tempo era anche sessista, come del resto lo era stata la maggior parte dei fondatori del nostro movimento. Tranne il caso di poche radical, alle donne non era riconosciuta una posizione paritaria nei gruppi anarchici: proprio come nel resto della società, erano relegate ai ruoli di casalinghe e di madri.
Ricordo di aver assistito ad un incontro in California molti anni fa: un dibattito sulle idee anarchiche a cui partecipavano un gran numero di famiglie anarchiche e di compagni. Audrey Goodfriend fu una delle uniche due donne che prese la parola durante il dibattito. Il resto si spostò nella cucina, a preparare il rinfresco che ci sarebbe stato alla fine dell'incontro. Quando mi sistemai ai piedi di Audrey ci fu una certa agitazione fra i compagni più anziani. Quel mio atteggiamento provocò non poche alzate di sopracciglia e risolini. Nessuno di loro si sarebbe abbassato a sedersi ai piedi di una donna durante un pubblico dibattito: avrbbe offeso la loro dignità. Non mi si fraintenda, questi erano compagni validi e impegnati che avevano sofferto molto per la loro devozione alla causa anarchica. Avevano pagato nelle miniere e nelle fabbriche il prezzo per sostenere i loro ideali anarchici, nonostante le loro precarie posizioni di stranieri ed immigrati. Li amavo moltissimo e li rispettavo, ma avrei voluto che riuscissero a riconoscere con maggiore sincerità la dicotomia, nella loro vita, tra le idee che sostenevano e la loro condotta nelle relazioni sociali.

Il compromesso inevitabile
Sono convinto che la necessità più urgente che ci troviamo ad affrontare in qualità di anarchici oggi, è quella di inventare orientamenti e azioni che riflettano la gioia e la speranza derivanti dalle nostre idee anarchiche, più che il pessimismo e lo sconforto. Dobbiamo inventare azioni che siano belle e pratiche. La nostra valutazione critica del ruolo dello Stato deve concretizzarsi come risposta alle persone capaci di entusiasmarsi e di aprire nuovi orizzonti basati sulle realtà della loro vita.
Paul Goodman, nel suo articolo «Riflessioni sulla linea da tracciare», scritto nel 1945, lo dice in maniera sintetica. «Libera azione significa vivere nella società attuale come se fosse una società naturale... il libertario è un millenario più che un utopista. Non vive proiettato in un futuro stato di cose che cerca di realizzare con mezzi inattendibili, ma fa uso, per quanto gli è possibile, della forza naturale, che è la stessa che ci sarà in una società libera, con la differenza che allora avrà più valore e sarà immensamente più forte grazie alla lotta comune. Semplicemente continuando a esistere e agire in natura e libertà, i libertari ottengono la vittoria e costruiscono la società; non è necessario che siano vincitori su nessuno».
Noi anarchici abbiamo sempre avuto la nostra parte di puristi e puritani che si sono sempre affrettati a puntare il dito accusatore su di noi, poveri mortali che, ahimé, per esistere, abbiamo dovuto anche scendere a compromessi e adattarci al sistema capitalistico. Tra di noi, non tutti sono stati così fortunati o intelligenti da scoprire come fare a sopravvivere senza scendere a compromessi. Forse, se uno scegliesse di non fare figli, o di non creare delle relazioni con altre persone, riuscirebbe a ridurre i compromessi al minimo. Ma vivere senza compromessi in questa società vuol dire vivere nel vuoto.
Per la maggior parte di noi il compromesso è stato e continua ad essere una condizione di vita. Io penso che il problema non sia tanto di come vivere senza compromessi, ma piuttosto di come fissare dei limiti ragionevoli alle concessioni che dobbiamo fare.
Faccio l'esempio della mia stessa vita: sono cresciuto in un quartiere poverissimo di New York. Come la maggior parte dei bambini di quel ghetto ebreo, fin dall'inizio ebbi la consapevolezza del fatto che mi si prospettava una vita di fatica senza fine. Fu solo dopo che ebbi raggiunto una certa sensibilità politica che fui in grado di sviluppare un valido tipo di approccio alla necessità di vendere la mia fatica sul mercato libero.
Per fortuna mi piaceva lavorare e per di più trovai un lavoro che mi dava grandi soddisfazioni. L'idea di trovare piacevole il lavoro in un sistema capitalistico può suonare come un'eresia per alcuni compagni, ma, quando Wilhelm Reich dichiarò che: «L'Amore, il Lavoro e la Conoscenza sono le basi della vita umana e dovrebbero essere intrapresi con passione e coinvolgimento... », io mi trovai totalmente d'accordo con lui. Scoprii che se uno diventava davvero esperto nel suo lavoro, si poteva permettere il lusso di una grande indipendenza. I padroni hanno bisogno di te, più di quanto tu non abbia bisogno di loro. E mi accorsi che fare un bel lavoro era una soddisfazione di per sé. Permetteva anche di camminare a testa alta. Inoltre, riscontrai nel mio campo (industria di materiale di costruzione) che essere un buon operaio aveva l'ulteriore vantaggio di garantire il rispetto dei colleghi e li rendeva più disponibili all'ascolto delle mie opinioni su argomenti estranei al lavoro. Per esempio, durante la guerra in Vietnam, quando salii sul palco della sede locale del sindacato e li sollecitai ad approvare una risoluzione di condanna all'intervento americano, mentre la maggior parte dei membri era ultra-conservatrice e patriottica e si mise ad attaccarmi gridando «a morte lo sporco rosso», fui difeso da un gruppo di giovani compagni di lavoro che, sebbene non condividessero le mie idee, mi rispettavano ed intervennero per impedire che gli altri mi facessero del male. Successivamente fui contento di trovare qualcuno di quei giovani in una dimostrazione contro la guerra in Vietnam. Certo, secondo una visione rigorosa, mi stavo compromettendo producendo denaro per le compagnie per cui lavoravo.
Ma presto imparai a stabilire dei limiti precisi ai lavori che avrei accettato. Persi diversi posti perché mi rifiutavo di lavorare per qualsiasi azienda che fosse coinvolta in forniture militari o cose del genere. Per esempio, lasciai una ditta quando scoprii che si trattava di costruire un carcere. Ma la realtà della mia vita, convinto come sono che siamo ben lontani da una società libera - io perlomeno certamente non riuscirò a vederla - la mia decisione di avere figli non mi ha lasciato alcun dubbio sulla necessità o meno di lavorare. E mi ha anche costretto a mitigare questa realtà scegliendo un lavoro che fosse socialmente utile e non anti-umano. Il compromesso è inevitabile, ma se teniamo presenti le nostre umane inclinazioni e la nostra visione radicale, possiamo ridurre questo compromesso al minimo.

Compagni non disperate!
Per quanto riguarda il futuro dell'anarchia, ritengo che la cosa più importante per noi sia quella di sostituire il nostro atteggiamento critico e negativo nei confronti delle istituzioni esistenti con una sperimentazione positiva di nuove direttive e azioni. Forse non è una novità, visto che il vecchio adagio dice: «Niente di nuovo sotto il sole», ma rinnovare il nostro entusiasmo, indirizzandolo verso posizioni che sono umanistiche, coraggiose e sperimentali, può offrire una ristrutturazione del mondo gioiosa ed esaltante.
A causa della minaccia che il militarismo in aumento in tutto il mondo fa gravare su tutti noi, cercare di unirsi il più possibile in movimenti antimilitaristi è di primaria importanza. Riconosco che la maggior parte degli appartenenti a questo movimento non è anarchica e nemmeno libertaria, ma bisogna riconoscere anche che la natura stessa della lotta contro il militarismo è un attacco allo Stato. Forse la ragione per cui quelle donne coraggiose e anarchiche di Greenham Common non riconoscono la loro natura anarchica, è che c'era un gruppo troppo esiguo di noi anarchici, riconosciuti come tali, a lottare al loro fianco.
E' ora di finirla con l'immagine degli anarchici che combattono contro la polizia e che cavillano su quale genere di violenza sia accettabile e corretta. In ogni caso, quel genere di azione può alleviare le frustrazioni e le tensioni create dalla nostra debolezza, può aiutarci a ripigliar fiato e, quanto a quella violenza, è una politica di emergenza che crea un'immagine di noi come attivisti e combattenti, ma nonviolenti. Questo vorrebbe dire una svolta in una direzione che definirei anti-statalismo creativo, ed anche una seria voce tra quelli che lottano per allontanare l'attenzione del mondo da soluzioni militaristiche.
Consapevoli come siamo della necessità degli innumerevoli servizi che mancano ai paesi più poveri; del bisogno di combattere la fame nel mondo, di garantire l'assistenza agli anziani e alle donne sole che devono allevare i loro figli in questo mondo così ostile; coscienti inoltre dell'inadeguatezza dell'assistenza sanitaria, del sistema scolastico e di quella interminabile serie di mali di cui è affetta la nostra società sotto il sistema capitalistico; e coscienti anche del fatto che chiedere ai governi di rivolgere la loro attenzione verso questi bisogni otterrebbe, come unico risultato, la più totale indifferenza o al massimo una svogliata adozione di soluzioni disumane e burocratizzate, dobbiamo unirci a tutti coloro che hanno bisogno di questi servizi e cercare di creare i mezzi per soddisfarli agendo in modo diretto, scavalcando le soluzioni burocratiche proposte dai governi. Agendo così, dovremmo riuscire a dare un senso reale alla nostra visione anarchica di mutua collaborazione e sperimentazione.
Per esempio, 25 anni fa, un gruppo di noi, anarchici e pacifisti che avevano fatto obiezione di coscienza nella Seconda Guerra Mondiale (molti di noi pagarono questa scelta con il carcere) si associò per dare vita ad una scuola tutta nostra. Avevamo tutti i figli piccoli e nessuno di noi voleva delegare la responsabilità di educare queste menti vergini al sistema scolastico retto dallo Stato. Insomma, anziché protestare a vuoto e inveire contro la scuola pubblica, agimmo in modo concreto e creammo la nostra scuola alternativa, «Centro Scuola Walden» che è tuttora funzionante e in cui lavorano ancora alcuni dei soci fondatori. Oltre all'istruzione dei nostri figli, il cui numero è sempre più elevato (siamo arrivati in poco tempo ad un massimo di 90 ragazzi) il centro funzionava da nucleo di resistenza contro l'invadente militarismo dello Stato. La nostra scuola si schierò in prima linea nella lotta contro gli esperimenti nucleari e contro la guerra in Vietnam. Infatti, quando l'Università della California proibì al Comitato di Lotta per il Vietnam (Viet Nam Day Committee) di riunirsi nel Campus di Berkeley, noi aprimmo il centro per metterlo a sua disposizione durante i giorni di formazione del comitato e il movimento, da allora, crebbe molto rapidamente. Fu anche grazie al coinvolgimento di alcuni di noi anarchici nei giorni in cui il comitato nasceva, che si evitò una tendenza a centralizzare e catturare il movimento da parte dei gruppi marxisti di Berkeley.
Entrando a far parte di gruppi che cercano di soddisfare i bisogni dell'umanità in modo concreto gruppi volontari come scuole gestite in cooperativa, cooperative di consumo, (non le gigantesche cooperative monolitiche burocratizzate) - ed esperimentando nuovi piani di vita e di lavoro, e anche opponendo resistenza alle interferenze dello Stato, l'anarchia crescerà sempre più prospera. Appassirà e morirà invece, se continuerà ad affondare le sue radici nei dogmi passati della tradizione. Non solo, ma posso dirlo per esperienza mia e della maggior parte dei miei compagni: l'Anarchia viva infiammma ed arricchisce la vita ed è una inesauribile sorgente di gioia. Non disperate, compagni, l'anarchia c'è e ci sarà sempre: perché non esistono altre alternative ragionevoli.

(traduzione di Tiziana Tosolini)